Dopo qualche anno di “latitanza” torna
sulle confezioni alimentari l’indicazione
dello stabilimento di produzione o (se diverso)
di confezionamento.
In verità, per alcuni organi del controllo ufficiale
quest’obbligo non era mai andato via, neppure
con la piena applicazione – dal 13 dicembre
2014 – del regolamento (UE) 1169/2011, che, a
differenza di quanto stabiliva la normativa previgente
(il decreto legislativo 109/1992), tra le “indicazioni
obbligatorie” (art. 9) quella “sede”
non aveva annoverato.
Assenza in verità non sorprendente ove si consideri
che il legislatore comunitario, in effetti, già
nelle sue direttive degli anni ’80 e ’90 (poi recepite,
appunto, nel decreto legislativo 109/1992 e
successive modifiche) non aveva previsto l’obbligo
di questa indicazione introdotta, invece, per
libera scelta del nostro legislatore nazionale.
Coerentemente, neppure il regolamento (UE)
1169/2011 ha prescritto tale indicazione che, invece,
il legislatore italiano reputa indispensabile
per esigenze – a suo dire – di completa “informazione”
del consumatore e per esigenze legate
alla “rintracciabilità” dell’alimento (in tal senso,
si veda il primo paragrafo dell’articolo 1 del
decreto legislativo 145/2017, che in questo articolo si va a
commentare).
Non sappiamo quanto nella realtà siano fondate
tali esigenze di rintracciabilità per tale via e fino
a qual punto l’indicazione della sede dello stabilimento
corrisponda ad una reale attesa del consumatore.
Tuttavia, non si può non condividere
ogni indicazione che renda quanto più possibile
trasparente e completa l’informazione del consumatore.
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